Nicol senza e per Il Periodico
Ci sono storie che per essere raccontate hanno prima bisogno di essere vissute, intessute nella matrice di fibre, ossa e spirito di qualcuno. Perché il coraggio non lo puoi inventare, può solo far leva su un corpo che esiste (o è esistito), in grado di fissare lo stato delle cose ed intravederne il mutamento. E quando il corpo si fa ispirazione narrativa, l'autobiografia giunge in soccorso di una letteratura che per necessità deve valicare i confini della tradizione.
Jonathan Bazzi con Febbre (Fandango Libri) sembra avere coniugato alla perfezione questa necessità di autenticità tematica e stilistica, in una prosa che è più di un semplice esordio letterario. Finalista al Premio Strega 2020 per un'anomala sestina (in rappresentanza dei piccoli editori) e con i diritti già acquisiti da Cross Production per un film, Febbre sceglie la via della narrazione su due binari: l'io narrante bambino di Rozzano, periferia sud di Milano, quartiere dormitorio; l'io narrante adulto, universitario, che scopre di essere malato. Un passato fatto di case popolari, balbuzie, bulli e prime attrazioni verso gli uomini; un presente conseguenza e reazione a quel passato.
Ma Febbre non è solo il racconto autobiografico di una vita vissuta tra Rozzano e Milano, e non è nemmeno solo la vicenda di un uomo che un giorno scopre di aver contratto l'HIV. Perché la febbre che non va via debilita sì la vita di Jonathan, ma è destinata ad espandere il suo contagio, a rendersi sintomatica nelle quotidiane dinamiche della società dell'apparenza.
La febbre ha contagiato Jonathan, e tramite Jonathan contagia tutti. Le paure di Jonathan bambino sono o sono state le nostre paure: le promesse non mantenute, la disperazione adolescenziale di non essere accettati, la speranza che quelle super eroine facciano il loro dovere e ci proteggano dal male. Non c'è spazio per il lirismo, sola prosa nuda, ad escludere imbellettamenti ed artifici per quelli che sono insuccessi e fratture. Non c'è mite consolazione nella rievocazione di immagini introspettive che ci appartengono, che appartengono a tutti. A quei corpi vincolati nelle definizioni, costretti negli standard di una vita monocromatica.
Bazzi, attraverso la sua opera prima, offre quindi il binario sul quale far correre il vagone dell'introspezione e lo fa grazie alla sua coraggiosa storia non taciuta, testimonianza manifesta perché scientificamente refertata. L'HIV diventa infatti l'anello che congiunge anima e corpo, medium che scopre i costrutti e ristabilisce l'ordine in un contesto caotico. Il virus diviene paradossalmente il movente per riappropriarsi della propria esistenza.
Jonathan sopravvive. Sopravvive alla periferia (Rozzangeles), un non luogo dove la violenza, la diffidenza e la superstizione scandiscono il ritmo delle giornate. Sopravvive agli affetti instabili e alla lotta dei padri, all'odio verso gli uomini e poi all'amore verso di essi, non ricambiato, pedissequamente ricercato. Sopravvive perché è fiero, una fierezza che non è oltraggio del contagio e non vuole esserlo; è prima asettica accettazione della diagnosi e dopo scoperta che la cura è nella stessa malattia, in quanto rivincita dell'unità del corpo.
Febbre non è solo un romanzo. Febbre è un manifesto sociale per gli emarginati, i rimproverati, i beffati, in cui abbonda la sincerità dell'autore per sopperire la colpa di una società patriarcale e competitiva, in cui il corpo più debole è destinato all'invisibilità. Bazzi non ha vinto il Premio Strega, non si è nemmeno avvicinato al podio, ma sicuramente si aggiudica il merito di aver contribuito a districare i pregiudizi e l’ineducazione intorno all'HIV, con una semplicità che non è banalità, con un coraggio che è talento.
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