Nicol senza e per Il Periodico
Il 10 aprile 1970 Paul McCartney mette la parola fine all’epoca dei Beatles, annunciando in un singolare comunicato stampa, strutturato come una mini-intervista, il suo allontanamento dal gruppo.
Una mossa a sorpresa che, inevitabilmente, dà adito al progressivo eclissarsi della favola beatlesiana, provando che quei quattro ragazzi di Liverpool non fossero altro che normali esseri umani, la cui collaborazione era ormai giunta al capolinea.
L’idea, descritta in questi termini da Timothy Leary, per cui: “I Beatles sono dei Messia. Agenti dell’evoluzione inviati da Dio, dotati di misteriosi poteri e in grado di dar vita ad una nuova specie di esseri umani” non ha, negli anni successivi al ’70, speranza di una rinnovata e assoluta conferma. D’altro canto, il loro scioglimento non obnubila o, peggio, cancella quello che i Fab Four sono stati per un intero decennio: prima i promotori di un nuovo modo di pensare e concepire la musica popolare e poi le icone di una rivoluzione epocale che si concretizza nello stupore e nella gioia collettiva di un’intera generazione.
Questa straordinaria propensione della band inglese a modificare la moda, il costume, la politica, il mercato di un’intera collettività, si manifesta anche con la pubblicazione dell’ultimo capitolo di una carriera senza eguali: l’album Let It Be.
Registrato nei primi mesi del 1969 prima di Abbey Road, e dato alle stampe l’8 maggio del 1970, esattamente 50 anni fa, Let it be è quindi, solo in ordine di pubblicazione, l’ultimo disco dei Beatles.
Il progetto è inizialmente concepito con il titolo Get Back e musicalmente ideato con uno stile tipicamente rock, conformemente all’intenzione di Paul McCartney di abbandonare le strumentazioni elettroniche in favore di un ritorno alle origini e di un approccio live.
Il tentativo di registrare un album in un grande concerto dal vivo si dimostra fallimentare e precursore di un’altrettanto problematica e discontinua registrazione in studio, causata dai latenti conflitti interni al gruppo.
I pezzi, così come si presentano nella loro veste finale, sono la testimonianza di una turbolenta collaborazione artistica, ma anche la conseguenza di un missaggio da parte del produttore statunitense Phil Spector (inventore del celebre muro del suono) che abbonda di sovraincisioni e snatura l’idea inizialmente concepita di ritorno alle origini, possibile solo con una registrazione in presa diretta.
Un processo creativo che, nonostante i dissapori, vede infine la luce nel maggio del ’70, accompagnato dall’uscita in contemporanea del documentario diretto da Michael Lindsay-Hogg, che racconta le sedute di registrazione di Let It Be e il leggendario concerto sul tetto del quartier generale della Apple Records di Savile Row a Londra.
Proprio dopo 50 anni dal famoso docufilm, il regista premio Oscar, Peter Jackson, sta lavorando ad una nuova edizione di questo documentario; 55, le ore inedite di girato messe a disposizione di Jackson, un autentico tesoro forse destinato a placare i mai sopiti dibattiti su quale sia l’ultimo autentico disco della band, su chi sia il colpevole della rottura, su quanto Let It Be sia o meno all’altezza di capolavori come White Album o Abbey Road.
Nonostante gli scontri tra scuole di pensiero opposte non si siano certo smorzati negli anni, un’unica amara certezza accomuna gli ascoltatori della rock band per eccellenza: è trascorso mezzo secolo dacché la storia del quartetto inglese è giunta al capolinea.
L’unico sollievo è poter continuare ad ascoltare i loro dischi, la loro musica e vivere indirettamente i sogni, le utopie e le passioni trasmesse ad un’intera generazione.
È impossibile immaginare il rock, il beat, il pop e la psichedelia senza l’apporto dei Beatles, ma è altrettanto difficile pensare alla nostra realtà sociale, esattamente come è, senza il loro messaggio di amore, amicizia e rivoluzione.
Ottimo post.
RispondiEliminaGrazie mille per averlo letto e aver lasciato un commento!
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