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Il regno delle care illusioni

La natura nella poetica leopardiana: un concetto in dinamica evoluzione, che da fonte del pessimismo divenne ragione del riscatto umano.
La Natura è donna. Ha il volto quasi di una sfinge, a metà tra bello e terribile, una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto e il dorso poggiato ad una montagna, a metà tra l’essere numinosa, quasi religiosamente maestosa, e l’essere sacralmente terribile.
La Natura è il piacere vestito dalle illusioni, la Natura è la ragione svestita da ogni illusione.
Che Leopardi ne fosse impaurito, che Leopardi ne fosse affascinato, egli ha fatto della Natura la sua religione e la sua depressione, qualcosa in cui credere, qualcosa per cui morire.
Influenzato da un retroterra culturale sensistico e materialistico, Leopardi pensa che la felicità si trovi nel piacere, che l’uomo desidera con istintività ma non può raggiungere mai.
Da questa tensione inappagata nasce l’infelicità e l’insoddisfazione perpetua che solo l’ignoranza del vero potrebbe placare.
Leopardi stesso pensa di aver trovato la sua felicità in una forma di Natura benigna, ma poi comprende il vero.
La comprensione leopardiana del vero parte da una convinzione in cui la Natura è grande e la ragione nemica di ogni grandezza e si consolida tramite la sua antitesi.
Il sistema di Leopardi è quindi imperniato sulla dialettica dei concetti di Natura e ragione, a partire dalle sue prime opere e in modo sempre diverso nelle seguenti. Questo mutamento matura il pensiero filosofico di Leopardi.
Nelle prime opere, infatti, la Natura non ha una connotazione negativa, anzi, citando lo Zibaldone, l’autore afferma che essa rappresenti il regno del bello e delle care illusioni “senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa”, ne consegue che la ragione è il principio della coscienza che inaridisce la poesia e toglie ai sogni l’affascinante proprietà illusoria.
Discorso del tutto analogo al ciclo vitale; la Natura da’ la felicità tramite l’ingenuità fanciullesca, la ragione da’ il dolore tramite la sterile saggezza degli adulti. È quindi chiara l’opposizione di Leopardi all’Illuminismo.
La Natura benigna del pessimismo storico leopardiano si trasforma presto però in Natura maligna, con l’accentuarsi, nel poeta, della concezione meccanicistica del mondo.
Contro le prime illusioni sentimentali e dopo la svolta pessimistica dei ventitré, la Natura assume una concezione ben lontana dalla precedente, ne scopre di essa la qualità illusoria e mitica, in quanto forza suprema incurante dell’uomo.
Questo concetto è di ampia discussione nel “Dialogo della Natura e di un Islandese”, che svela l’indifferenza cieca e la forza distruttrice con le quali, la Natura, è impegnata solo a rispettare un ciclo vitale che si sussegue senza risparmiare dolori.
Leopardi scopre quindi l’uso attivo della ragione, grazie alla quale l’uomo lotta contro l’aridità e l’agnosticismo della Natura.
Leopardi muore apprezzando ciò che primitivamente disprezzava, apprezza quindi il vero volto della Natura, per quanto terribile e ostile, per quanto causa e motivo dell’unione della comunità umana. Una collettività consapevole della sua piccolezza dinanzi ad una Natura maligna ma non per questo rassegnatasi: al contrario, gli si presenta la possibilità di riscattarsi, creando una civiltà nuova basata sul valore umano più vero, la pietà.

Nicol Locaputo


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