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La guerra è solo morire?

Le molteplici visioni della grande guerra dei letterati del tempo
Iperbolizzare la guerra ed i suoi significati per non riuscire nemmeno a trovarne uno vero. È che la guerra è troppo ed è tanto e nemmeno la letteratura, la prosa e i poemetti sono in grado di sintetizzarne l’essenza. Un’essenza tormentata di significati incorrelabili, smembrata di senso e alienata dal desiderio di fare guerra pur di non fare la pace.
Gli autori Novecenteschi hanno provato a tracciarne i contorni, ad illuminare quei tratti somatici sputacchiati di pochezza, riuscendo solo ad ampliare il ventaglio di significati e a regalarci un dipinto in versi della propria idea di guerra.
Quest’idea si lascia influenzare cronologicamente dal susseguirsi dei fatti che spesso si consolidano in un ben definito movimento culturale, che sbandiera il proprio credo facendone di esso l’unica verità. Una verità non sempre condivisibile, terreno di schieramenti e prese di posizione, che vedono opporsi coloro che il combattimento lo esaltano e coloro che lo disprezzano.
Una guerra considerata di “gloria” per il “Manifesto del Futurismo” dove la morte, giustificata ed esaltata, è vista come l’unico mezzo per il raggiungimento dell’ideale vita pura.
Il sacrificio umano, condizionato dal senso patriottico, è segno di rinascita, stimolo per la trasformazione di un passato plumbeo in un futuro, in prospetto roseo, ma comunque ingobbito dal peso del sangue.
L’idea di guerra come igiene del mondo è il timone che spinge la barca futurista in una corrente di inquietudine, aggressività ed esaltazione della realtà. La guerra perde il valore umano ad essa legato, sfuggendo rapida alla legge morale ed incanalandosi nel mare dello spietato ricostruire, atto all’esclusivo ristabilimento dell’equilibrio umano.
Si professa tra i poeti sostenitori della guerra “di pulizia” anche Giovanni Papini, che nel suo “Amiamo la guerra” dice “siamo in troppi”. Come se la guerra fosse lo strumento per eliminare il superfluo, un superfluo che continua a lavorare per mangiare, che continua a mangiare per vivere e che continua a vivere solo perché non è ancora morto.
La guerra, così, non appare solo giusta, ma anche necessaria, necessaria per ordinare il disordine della vita, che quando viene a mancare non è nemmeno degna di essere ricordata.
Allontanandosi dalla concezione filo-etica precedente, la faccia opposta della medaglia si colora di rosso. Perché il teatro degli orrori proposto da V. Majakovskij, è un’altalena di versi di descrittiva realtà e di disgusto figurato; la guerra è velenosa, violenta e puzza di sangue.
Il gioco del fuoco è condannato, seppur con altra tesi, da Renato Serra, che non la condanna solo come una recita violenta ma anche come una lotta inutile.
La guerra non cambia niente, non migliora e non cancella, seppellisce il corpo ma non offre spazio ad un’anima rigenerata. Lo scenario resta lo stesso, solo inutilmente più sporco. Gli alberi non fanno solo ombra all’ignoranza, ma anche al corpo di un’innocente vita, condannata al non essere santificata.
Contrariamente, negli scritti di D’Annunzio, una retorica puramente nazionalistica si concretizza, in termini anche narcisisti, in un perseguimento costante degli ideali valori di guerra, ritrovati anche nella prosa di Thomas Mann.
Mann introduce il punto di vista tedesco dal quale si evince come la guerra sia una necessità morale, in grado di entusiasmare e purificare l’anima, donando una rinascita creativa ai letterati tedeschi.
Ma come può uno che, al tempo odierno, si professa pacifico, ritrovare la pace interiore e indossare la veste bianca se per farlo si deve macchiare di rosso? La discordanza è palpabile, non per altro alla letteratura Novecentesca è seguita la psicoanalisi di Freud, in grado di aggiungere domande ad altre domande.
Ed è giusto che l’uomo, meno superuomo di oggi, spaventato dall’ancora realtà della guerra, si turbi di domande per trovare una risposta meno infetta ma comunque influenzata, e perché no, disincantata, dal decorso storico.

Nicol Locaputo

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